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La lunga marcia della Fratassina: vivere, non sopravvivere
La diagnosi di Atassia di Friedreich è l’inizio di una battaglia che si combatte prima nell’anima e poi nel laboratorio. Il racconto corale di madri, figli e scienziati svela una verità potente: la speranza nasce quando il sapere si fa comunità.
È l’ombra della “zebra”. Quando le anomalie motorie si manifestano, la medicina cerca i “cavalli” delle malattie comuni. Ma per l’Atassia di Friedreich (AF), l’esordio è subdolo, spesso celato da una scoliosi o da una goffaggine scambiata per sbadataggine.
Abbiamo seguito le storie che definiscono la malattia. C’è quella di Filippo, la cui diagnosi arrivò nel 1998 dopo un lungo pellegrinaggio di esami. Contro ogni previsione, si è laureato in Medicina, trasformando la sua laurea nel suo “coming out”, dedicando oggi la sua vita allo screening neonatale. E c’è il dramma di Maria, che ha affrontato la duplice scoperta: prima il figlio Stefano , poi la figlia Lucia , entrambi colpiti da questa malattia genetica recessiva.
La lotta silenziosa: il peso della consapevolezza
La vera battaglia inizia dopo il verdetto. L’esperienza di Gianmario è emblematica: il risultato del test genetico gli fu nascosto per cinque anni. In quel tempo di ignoranza, visse al “100%”. La rivelazione, sebbene intuita tramite ricerche online , fu un colpo duro, trasformando la sua vita in una ricerca continua di consapevolezza attraverso la psicoterapia.
Gli specialisti confermano: l’accettazione è ostacolata da rabbia e senso di impotenza. Le reazioni sono diverse: il coraggio pragmatico di Stefano, pronto a lottare, si contrappone al ritiro di Lucia, che chiese di togliere il pianoforte di casa quando il sintomo le rallentò le dita. Ma il monito di Maria risuona potente: bisogna “vivere, non sopravvivere”. L’accettazione, in questo contesto, è una “scelta attiva”, che permette di “fare spazio” alla malattia per concentrarsi su ciò che si può ancora realizzare.
La svolta del laboratorio: la nascita della Fratassina
La scienza ha fornito la prima vera speranza. Negli anni ’90, ricercatori come il Prof. Pandolfo e la Dott.ssa Mariotti hanno affrontato l’incertezza, partendo solo da indizi clinici. La svolta arrivò nel 1996 con l’identificazione del gene responsabile e di una mutazione “non convenzionale”: un frammento di DNA ripetuto (GAA).
Da lì, nacque il nome “Fratassina” per la proteina difettosa, essenziale per i mitocondri. Oggi, la ricerca si concentra proprio sulla Fratassina, con due frontiere promettenti: terapie geniche e trattamenti per ridurre lo stress ossidativo. Per i pazienti, ogni sperimentazione è linfa vitale, l’elemento che permette di “non mollare dal punto di vista mentale”.
L’unione è la cura
Il filo conduttore di tutte queste storie non è la sofferenza, ma il coraggio di trasformare l’isolamento in azione. Come ha sottolineato Antonella, la madre di Paolo e presidente di AISA Lombardia ODV, la ricerca non è solo nei laboratori, ma nella “ricerca quotidiana” di una vita dignitosa. Le famiglie lottano per i servizi e i progetti di vita che la burocrazia spesso nega.
La diagnosi di AF è un punto di rottura, ma le associazioni dimostrano che non deve essere un punto di arrivo. Il vero commento finale è questo: non si può sconfiggere la malattia da soli, ma mettendo insieme le singole storie e le singole ricerche, si costruisce la forza per gestirla con dignità. La comunità è la prima, e spesso la più potente, delle terapie.
